“Se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche…”, così scriveva il grande scrittore e sceneggiatore pescarese Ennio Flaiano. E non è un caso che le due montagne siano le assolute protagoniste delle leggende abruzzesi, libri di roccia in cui il tempo e la fantasia popolare hanno scolpito le loro storie, talmente potenti da poterle vedere e da poterle addirittura toccare. È il caso del Gran Sasso e della bella addormentata: la sagoma della montagna più alta dell’appennino disegna le forme di una donna che riposa, ma dietro questa gigantesca scultura naturale si cela molto di più.
Gran Sasso e Maiella
La leggenda racconta che Maia, la più bella delle Pleiadi, era fuggita dalla Frigia per salvare il suo unico figlio, un gigante, che era stato gravemente colpito in battaglia. La ninfa aveva saputo da un oracolo che, ai piedi del Gran Sasso, al di là del mare, cresceva un’erba miracolosa. Affrontò così la traversata, approdò a Ortona, raggiunse la montagna, ma non fece in tempo a cogliere l’erba, perché il figlio morì. Sconvolta dal dolore, Maia seppellì il gigante ai piedi del Gran Sasso, poi si rifugiò sulla montagna di fronte, da dove poteva vedere la sepoltura del figlio. Ancora oggi, osservando il Gran Sasso da levante verso ponente, è visibile la sepoltura del gigante, il “ciclope di pietra”. Cambiando angolazione, come per incanto, la montagna assume il profilo di una donna addormentata: madre e figlio si sono fusi in un eterno abbraccio di boschi e di roccia. La Maiella, invece, da Maia ha preso il nome, diventando la Montagna Madre, la terra stessa che accoglie, nutre, piange e consola. E ancora oggi, nelle notti d’inverno, quando sulla Maiella infuria la bufera, i pastori giurano di udire la voce di Maia che, invocando il figlio, si perde nell’urlo del vento. E il Gran Sasso e la Maiella si parlano, si guardano, continuando a raccontare.
Credenze popolari abruzzesi
Le credenze popolari abruzzesi nascono dalla terra, dalla roccia e dal mare. Terra di confine, l’Abruzzo, altrove in cui la leggenda diventa trama stessa della vita di pastori e pescatori, di montanari e gente di mare. A Campo Imperatore, nella grandiosa e selvaggia cornice del Gran Sasso, guai trovarsi da soli di notte: si rischierebbe di venire assaliti dal lupo fantasma e da un branco di lupi spettrali. A Crecchio, in provincia di Chieti, c’è un castello risalente al XII secolo: pare che fra le sue mura si aggiri ancora il fantasma del duca De Riseis d’Aragona. A Lanciano (CH), la suggestiva torre della Chiesa di San Giovanni Battista, detta “della Candelora”, è stata costruita nel XIII secolo, probabilmente sui resti di un edificio pagano. Strane voci e rumori provengono dalla torre di notte, spaventando i passanti. A San Vito Chietino, sul mare, vicino agli scogli, c’è un luogo in cui, secondo le dicerie popolari, nelle notti di tempesta si ritrovano i diavoli e le anime dei peccatori. Sulle pietre, addirittura, ci sono dei segni che sembrerebbero impronte di diavoli. Guai, nelle notti di burrasca, udire le loro urla che si confondono nel vento: pare sia presagio di naufragi.
Castello di Rocca Calascio
Misterioso, affascinante, imponente, domina le vette cristallizzando il tempo. È il castello di Rocca Calascio, scenografia prediletta da grandi registi ed esempio di architettura che si fonde con la montagna, che ne diventa essenza e padrona. In questo luogo avvolto dal silenzio, pare che, nelle notti dei solstizi, si riuniscano i fantasmi. L’imponenza della rocca, scalfita ma non distrutta dal tempo e dai terremoti, e la solennità dell’antico borgo medievale sospeso sulle vette, ne fanno una sorta di portale magico, un non luogo di passaggio fra i vivi e i morti. Questo dialogo costante con il mondo dei morti ha fatto fiorire anche tante leggende abruzzesi sul Corteo dei Morti. In particolare, sul Ghiacciaio del Corno Grande, secondo gli anziani ci si può imbattere nella processione delle anime, molto pericolosa per i vivi: un incontro, infatti, potrebbe determinare il contagio della morte.
La leggenda di pesce lucente
Persino Italo Calvino, nelle sue Fiabe Italiane, non aveva resistito alle leggende abruzzesi, tanto da raccoglierne diverse. Fra queste, la leggenda di pesce lucente: un contadino poverissimo aveva ricevuto da un uomo cento ducati e, senza dire niente alla moglie, li aveva nascosti sotto il letame, sicuro che nessuno li avrebbe toccati. Ma la moglie, per racimolare un po’ di denaro, vendette il letame. Il contadino, disperato, incontrò di nuovo l’uomo misterioso, riebbe i cento ducati e li nascose sotto la cenere, ma la moglie, ignara, vendette anche quella. Sconvolto, il contadino andò nel bosco, dove incontrò ancora il suo benefattore, che stavolta gli diede un sacchetto con ventiquattro rane: il vecchio le vendette e, con il ricavato, comprò un pesce. La sera stessa, lo mise fuori dalla porta ad essiccare. Fu una notte di burrasca. Il mattino dopo, il contadino vide arrivare a casa sua diversi pescatori con dei doni: durante quella notte di tempesta, il pesce si era illuminato e, come un faro, aveva fatto loro da guida. Se il contadino avesse appeso tutte le sere il pesce, i pescatori avrebbero sempre diviso con lui tutto il pescato.