Il mandala ha le sue origini in India nel mondo orientale antico e arriva in Tibet tra l’VIII e il XII secolo d.C.
Il termine sanscrito mandala ha un significato letterale che richiama i concetti di “essenza” (manda) e “possesso” o “contenimento”; altro concetto frequentemente associato alla parola mandala è “cerchio/circonferenza/ciclo”.
Come è fatto un mandala
Il disegno base del mandala buddista è un quadrato che contiene un cerchio, rappresentando un tempio che a sua volta contiene le divinità, solitamente collocate all’altezza dei punti cardinali, e altre forme e figure con valore simbolico.
A seconda della corrente, la simbologia può variare, ma resta uguale il posto assegnato alla divinità più importante o al fiore di loto: il centro, circondato da un quadrato a simboleggiare la cinta muraria, con una porta per ogni lato e una serie di gallerie concentriche che conducono all’esterno.
La creazione del mandala è per il monaco una pratica fortemente simbolica e meditativa, durante la quale il monaco si trova a entrare nel mandala e a percorrerne le strade, che sono simbolo di compassione, sofferenza e molti altri aspetti della vita, che l’uomo attraversa e supera in un cammino che lo conduce al centro del mandala, dove raggiunge la divinità e, con essa, la liberazione.
I colori che compongono il mandala tibetano simboleggiano i 5 elementi dell’universo, ognuno portatore di un significato simbolico profondo: il giallo rappresenta la terra, simbolo di ciò che dà la vita, quindi di fermezza, solidità, fiducia, accoglienza; il bianco rappresenta l’acqua, simbolo di ciò che dona armonia all’esistenza, quindi di fluidità, flessibilità e coesione; il rosso rappresenta il fuoco, simbolo di sole, calore e vitalità; il verde è il respiro della terra, simboleggia lo scambio, la comunicazione capace di far vibrare l’universo e animare la vita; il blu, posto al centro, rappresenta lo spazio, l’infinito, la libertà, all’interno dei quali si apre il seme e nasce la vita.
Il mandala come pratica di meditazione
Nell’accezione buddista, il mandala rappresenta la formazione del cosmo e per questo è impiegato come pratica di meditazione e contemplazione.
La sua creazione è solitamente preceduta da una cerimonia di apertura durante la quale i monaci intonano mantra e suonano flauti e tamburi.
La base del mandala è realizzata disegnando e misurando con cura i contorni del mandala su una superficie piana, con un gesso o una matita. A questo punto i monaci tibetani, 4 per lato (a ognuno di loro si assegna un quadrante del mandala) dispongono nelle sezioni del disegno milioni di granelli di sabbia colorata, versati sulla superficie con un apposito imbuto di metallo, denominato chakpur.
La sua realizzazione può richiedere anche diverse settimane, ma poco dopo la sua costruzione deve essere distrutto, perché il mandala ha un significato fondamentale tra i tanti: nulla resta uguale, tutto cambia, nulla permane, concetto chiave della tradizione buddista che riporta al valore del “non attaccamento” e alla impermanenza delle cose.
Questa pratica è alla base di alcune attività sempre più diffuse in occidente ai giorni nostri e basate sull’impiego del colore per riempire disegni che richiamano le figure geometriche e concentriche del mandala. L’idea di fondo è che la pratica faciliti l’emersione di stati emotivi pur restando all’interno di uno spazio accogliente e contenitivo, reso possibile dalla capacità intrinseca in ogni mandala di rappresentare simultaneamente il centro, quindi l’interiorità di una persona, e la circonferenza, quindi il modo in cui la persona si pone verso il mondo che la circonda. La delimitazione dello spazio aiuta inoltre nella gestione dei confini e nella ricerca di un proprio “centro”, dal quale si rischia facilmente di allontanarsi proiettandosi troppo all’esterno.
In quest’ottica, anche il gesto finale che segue la creazione del mandala ha un valore terapeutico: serve a imparare il non attaccamento, a comprendere profondamente che nulla dura per sempre.